(Redazione) - Dissolvenze - 14 - Tigri (un racconto di Arianna Bonino)

A cura di Arianna Bonino

Fabio Weik: “Fosferne Gold”, 2015. Acidi, smalti e glitter su tela

Era poco dopo aver chiuso gli occhi
che arrivavano le tigri.
Intagliate su uno sfondo spaziale
costellato di meteoriti elettriche che le ricordavano quello scenario
nero pieno solo del rombo del cuore, mentre caracollava fino a
collassare contro la porta del bagno, in un mattino di prima estate
che si sarebbe concluso con una cicatrice a forma di liù cinese
sotto il mento. Era un buffo adattamento epiteliale da poter
raccontare in confidenza al momento opportuno a chi si fosse
soffermato almeno dieci volte con lo sguardo su quel particolare - le
contava mentre parlava -, dando prova di curiosa intuizione e
aggiudicandosi così lo svelamento di quel primo segreto anatomico.
Quel giorno di tanti anni prima era svenuta mentre le tigri
arrivavano a branchi – verdi e rosa su fondo cangiante. Mobili
quanto macchie d’olio sull’acqua, i musi spigolosi emergevano
tanto da emettere fiato, mentre avanzavano nei suoi occhi.
Quella
non era la prima volta che comparivano. Era un ricordo lontanissimo
quello delle sue tigri, forse il primo di tutti. E tornavano ogni
volta che voleva: bastava chiudere gli occhi. Quando voleva un tuffo
che la precipitasse incontro a quei musi acuminati e ruggenti,
bastava premere con le dita sugli occhi chiusi e quelle si liberavano
da mille gabbie precipitando verso di lei.
Sulla parete interna delle palpebre un
paesaggio psichedelico e fluorescente formava spirali e triscele che
evaporavano lentamente risucchiati dalle pupille, come se per una
volta lei fosse là dove andavano a finire i titoli di coda di un
film di fantascienza, lanciati nell’oscurità del cosmo, e non
invece dov’era, sulla poltroncina di velluto color David Lynch che
si ripiegava appena liberata, mostrando una placca quadrata, fissata
dal susseguirsi lisergico delle piccole borchie ben allineate che si
ripetevano di seduta in seduta, nella fila rastremata verso il
tendone magenta.
Quel tendone era la fine. Mentre le luci si
riaccendevano spegnendo la pece di quel piccolo cinema, anche la via
Lattea dei faretti di guida perdeva l’orientamento.
Quelle tigri negli occhi erano fosfeni.
Così le aveva detto il medico: luci, lampi, corpi mobili che si
affacciavano improvvisi nella proprietà privata del campo visivo.
“Non deve trascurarli”, disse. E lei infatti non li avrebbe
trascurati. Anzi, erano anni che faceva il contrario, provocandoli
quando dimenticavano di prendere l’iniziativa. Ma la spiegazione
che aveva sentito fare dallo specialista, intento a refertarla su
carta intestata con maiuscole dalle lunghe antenne compiaciute e
puntini molto lontani dalle i di pertinenza, non coincideva affatto
con quello zoo microscopico che si animava nel buio, a porte chiuse.
Così pensava mentre toglieva il viso - con annessa pungente
cicatrice a forma d’ideogramma – dalla mentoniera
dell’autorefrattometro e perlustrava vaga lo studio sfuocato, dove
grigie deformità si mescolavano come un acquaio pieno di stoviglie
si specchia mostruoso e capovolto in un mestolo.
La macchia
bianca del camice parlava: “la retina…accertamenti, delle volte
un trauma anche lieve, ecodoppler…”, certo. Visite
specialistiche, fondo oculare e altre ore ad aspettare che la pupilla
dilatata dall’omatropina si cablasse nuovamente su un diametro
regolare, in grado di percepire un mondo astigmatico ma tutto sommato
percorribile.
Ma no, a ben vedere, in realtà era solo colpa sua.
Era lei che non aveva descritto come si deve. Quelle erano tigri,
mica mosche volanti, abbagli o smagliature liquide. Tigri pervinca e
oro.
Se stringeva forte gli occhi dopo aver guardato il sole di
traverso, d’estate ne vedeva di verdi a righe rosse e quei colori
s’invertivano misteriosamente nel percorso millimetrico che
piombava i musi dietro le pupille, persi per sempre.
Durava
molto a lungo la conta a nascondino, quando da bambina toccava a lei
la caccia. Non l’aveva mai detto a nessuno, ma era per le tigri che
ci metteva così tanto. Con le mani sulla faccia, a spergiuro d’ogni
accusa, e scacciando con quel gesto la tentazione di sbirciare cosa
stesse accadendo intanto là fuori, quelle cifre gridate uno dopo
l’altro si dilatavano sempre più tra gli alberi del giardino, in
un’algebra decrescente e rada, fino allo zero. Deformava il tempo,
mettendo cinquanta numeri dove ne bastavano cento. Lo faceva per
incantarsi di tutte le sue belve azzurre, perché ne comparisse
ancora una, l’ultima, la penultima tigre viola. Gli occhi si
muovevano sotto le dita, elastici, duri come biglie in un fazzoletto
umido. Bello scovare i nascosti nei nascondigli, ma niente pareggiava
davvero quel film proiettato in segreto e mai replicabile che
prendeva vita davanti al suo sguardo chiuso.
Solo una volta aveva avuto la
sensazione che qualcosa fosse in grado di riprodurre quasi fedelmente
quel gioco d’impressioni che la camera oscura dei suoi occhi
estrofletteva sul telone abbassato dello sguardo. Era stato mirando
in un caleidoscopio puntato contro la luce di un cielo francese e
ventoso. Lo esplorava con la bocca aperta per mettere meglio a fuoco
la scena, puntando verso un obiettivo inesistente ma luminoso.
L’aveva sollevato poco prima dal banco di un giocattolaio le cui
mercanzie non erano capaci di conservare il fascino che di frequente
il cinema assegna a tale genere di oggetti. Ciarpame. Ma non quello.
Lì dentro, in quel caleidoscopio, aveva scoperto qualcosa di simile
alle sue tigri segrete.
I cinque giorni di vacanze che erano
seguiti a quell’acquisto erano trascorsi senza vedere nemmeno uno
dei paesaggi che le indicava il fratello e ignorando le sue
provocazioni e suppliche perché mettese via quell’aggeggio e
andasse a giocare con lui. Violaceo di pianto e con le nocche
imbianchite dai pugni di stizza, aveva dovuto rassegnarsi. Gli aveva
rovinato le vacanze, ma aveva un buon motivo. Lei aveva le sue tigri.
E ne aveva di nuove, adesso, in fondo al suo caleidoscopio.
Poi
arrivavano sempre quelle rosse, di notte, a occhi chiusi.
La madre
disapprovava in silenzio guardandola mentre lei le puntava contro il
suo caleidoscopio, assente da tutto e con la pasta in bianco che
rimaneva incollata nel piatto, quasi intatta, fredda.
Nel cesto
del cucito - che del cesto aveva solo il nome, trattandosi in realtà
di una strana cappelliera conica in vimini tinta con sfumature
biancazzurre - tra le altre cose, c’erano l’uovo di legno per il
rammendo e un lunghissimo paio di forbici che nessuno aveva avuto mai
il coraggio di sfilare dalla custodia che avvolgeva quelle lame come
un guanto protegge dita affusolate e bianchissime. Erano le forbici
nuove, quelle acquistate considerando lo stato d’usura del solito
paio, e che, come tutte le cose nuove, appena comprate, non erano mai
entrate in scena, invecchiando illibate, portandosi nella tomba una
verginità venerata e terribile.
In quel cesto c’erano tuttora
piccole trecce di lane sgargianti, una scatolina con sei matassine
per il rammend
o delle calze da donna marca Cucirini & Cantoni e
due ditali dalla superficie punteggiata e rugosa, a lingua di gatto,
uno più grande, per l’indice, e uno destinato a incappucciare
l’ultima falange dell’anulare, che nei lavori di cucito pare
avere un’importanza decisiva nel momento in cui si deve tirare il
filo in modo da fissare il punto là dove deve rimanere, teso e
preciso. È una questione di sensibilità, saper cucire. Occhi e dita
devono lavorare in un andirivieni incantatorio, che si ripete decine,
centinaia, migliaia, di volte, e ogni volta chiede il rispetto di
regole tacite d’armonia, che governano accordi segreti stretti coi
filati. Se non si ha questo dono, qualsiasi sforzo che le suore
tentino di fare prendendo le mani dell’alunna nelle proprie per
guidarle con la sicurezza dell’esperienza nell’esecuzione del
ricamo o del lavoro all’uncinetto, sarà del tutto vano.
Per
questo motivo cucire e ricamare sono operazioni solitarie e
silenziose, collocate in angoli d’introspezione illuminati di
frequente da una quantità di sole o altre luci assolutamente
insufficiente per vedere davvero bene cosa si stia facendo, ma
bastante per farlo come va fatto. Il rumore della gugliata che
sigilla un orlo o annoda la forma astratta d’una fogliolina sul
bordo d’un fazzoletto si può cogliere solo se si è artefici di
quel ricamo.
Sua madre non sapeva cucire. E non sopportava che le
arrivasse alle spalle di soppiatto mentre lei era china su un’asola
a calcolare dove attaccare il bottone, un bottone molto simile agli
altri della camicia, ma non lui, non quello caduto, mai più
ritrovato.
A lei però piaceva vedere il collo della madre teso
mentre rammendava qualcosa, ma soprattutto sentire il rumore della
sua bocca che si apriva quando il capo del filo si ribellava alla
cruna, ripiegandosi attorno a quel piccolo ovale di vuoto metallico,
come un bambino che non vuole entrare in acqua la prima volta che
affronta il mare e intinge un piede, ma si ritrae, voltandosi per
controllare di non essere più inseguito dall’onda.
Quel cesto
pieno di misteri e tentazioni infantili era rimasto lo stesso e con
lo stesso sentore di mirabilia intatte e si schiudeva ora davanti ai
suoi occhi cresciuti.
Era in quel cesto che ora stava frugando.
Cercava qualcosa che sapeva avrebbe trovato sul fondo, sotto i
rocchetti colorati dov’erano infilzati aghi di cui si scorgeva solo
qualche millimetro di cruna, tanto a fondo erano penetrati negli
anni, facendosi strada con titanica tenacia, così da rimanere ormai
avviluppati per sempre nella fitta architettura del filo, a sua volta
compromesso da quel corpo estraneo, con l’effetto di una reciproca
e fatale predazione senza fine.
Il foglio era là sotto,
ripiegato nella busta dal formato insolito. Conosceva quel lembo
sgualcito. Un involto quadrato, d’un bianco caldo, senza scritte.
Il contenuto era di un tono diverso. Proveniva dal blocco delle
ricette di un medico francese. La prima volta che lei lo aveva visto,
quel foglio era tra le mani di suo padre che, accanto a una
finestra, lo guardava pensieroso, spostando gli occhi da quella
calligrafia azzurra e arrotata a lei, sorridente e divertita dal
volto rovesciato, con un’impossibile barba capovolta, così come la
vedeva mentre stava sdraiata sul sofà, con la testa penzoloni, nel
vuoto, la frangetta sottosopra e il mondo a gambe all’aria,
percorso da sciami di lucciole e microscopiche bolle iridescenti come
quelle di sapone.
Era successo qualcosa allora ai suoi occhi,
qualcosa che non ricordava. Ma una traccia c’era in quel foglio,
affidato al cesto del cucito come si lascia una preghiera tra due
pietre d’un tempio.
E i suoi occhi anno dopo anno erano
cambiati, gli sciami erano migrati e tornavano ormai solo in estate,
sui muri bianchi e nel cielo del primo pomeriggio, quando la luce era
così fosforica e piena da dover far schermo con la mano e poi buio,
ritrovando in quel silenzio scuro le sue tigri lattescenti.
Una
però, qualche tempo prima di starsene su quel divano a guardare il
contrario delle cose e la barba fuori posto di suo padre, l’aveva
vista davvero, e a occhi aperti: bellissima, lasciava impronte vere,
grandi, affondate nella sabbia. Aveva passi svogliati, mentre seguiva
con lo sguardo la frusta avvolta nella forma di un cerchio che il
domatore le parava davanti al muso, precedendola, rivolto al
pubblico, nell’elegante giacca rossa con quelle file di bottoni
d’oro e l’altra mano in alto, in un guanto luminoso, bianco come
zucchero.
Ma lei guardava la tigre, la lingua fluttuante, le
tracce sulla polvere, la pancia che oscillava di passo in passo, i
denti scoperti a tratti, e silenziosi.
Quando i loro sguardi si
erano incrociati, si erano scambiate un sorriso, così pensava.
Ansimava, la tigre. Microscopiche gocce di respiro le si
aggrappavano al tappeto erboso delle fauci. Era bellissima.
Non
seguiva più la frusta, adesso. Non avanzava oltre. Si guardavano.
Sorridevano entrambe, lei e la tigre. Era bellissima la tigre.
Non aveva mai visto niente di più bello.
E poi era caduto tutto.
Il panino ancora da mordere, la bottiglia di Fanta con la cannuccia
rosa come la lingua della tigre, le grida.
Anche lei era caduta.
Era finita su un tappeto volante circondata di luci che
continuavano anche mentre si addormentava e vedeva una corona di
teste mascherate chinarsi su di lei.
C’era vento e sciami di
piccole cose stavano migrando nel cielo del suo sonno.
Poi erano
arrivati i branchi rossi.
Lo stesso giorno in cui la tigre del
circo era morta per andare ad abitare per sempre nei suoi occhi.








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