(Redazione) - Dissolvenze - 18 - BLINDSIGHT
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![](https://gupmagazine.com/wp-content/uploads/2021/05/a-new-american-picture-2.jpg)
La
verità è sopravvalutata.
C’è
poi da fare sempre la famosa distinzione tra vero e reale, se proprio
andiamo a vedere. Poi ci sono i sogni, che sono veri, perché appunto
davvero li facciamo, ma non sono reali. O forse sì, dipende.
Si
potrebbe dire: sì, però una certezza l’abbiamo: se una cosa la
puoi fotografare, vuol dire che è vera e anche reale. Può essere,
ecco, meglio se la mettiamo così: può essere.
Questioni
che si sollevano incappando nel lavoro del fotografo Doug Rickard,
americano, nato nel 1968 e purtroppo già morto, un paio d’anni fa.
Laureato
in storia americana e sociologia all'Università della California,
San Diego, Rickard è il fondatore di American
Suburb X e di These
Americans, siti web di
raccolta di saggi sulla fotografia contemporanea, oltre che di
archivi fotografici storici.
Rickard,
come di molti grandi fotografi si può certo dire, cercava
quell’istante che, isolato dal contesto, fosse significante, avesse
pregnanza, s’imponesse. Gli interessava senz’altro l’estetica
data da forma, colore, disposizione dei corpi nello spazio: quello
che si può sintetizzare nel concetto di composizione dell’immagine.
Ma Rickard è andato oltre.
![](https://designobserver.com/media/images/39.259736-Baltimore-MD-2008-2011-1_525.jpg)
Cosa fa la
fotografia? Ottiene e conserva quel qualcosa che visto, ti fa fermare, come un
gigantesco punto interrogativo nero nel cielo blu. Tanti nomi rimangono nella
storia per la loro capacità di aprire una breccia nel flusso magmatico del
quotidiano. Street photographers indimenticabili, ai quali lo stesso Rickard
racconta d’essersi ispirato, da Stephen Shore, a Robert Frank, fino – anzi,
partendo da - Walker Evans: sguardi che sanno intercettare il momento stregato
in cui una luce sull’asfalto, il gesto di un passate ignaro, il volo spiccato
da uno stormo di colombe sollevate dal misterioso imperativo d’un richiamo
unisono e segreto, diventano perfetti in sé, immortali.
Anche
Rickard si è rivolto al reale: nei suoi scatti si scorgono più di tutto scorci
di quell’America di periferia che sa di dietro delle case, di retro delle
strade, di vicoli ciechi, di quel mondo del mondo dove ci si muove tra una
parte e l’altra della vita visibile. Tutto quell’intrico di viuzze, cortili e
fili della biancheria ospitati da cose intime e usate, vecchie, private. Un po’
come l’ammasso, il garbuglio di travi, cavi, polvere, cose indefinite e parti
indefinite di cose indefinite che stanno dietro le quinte di un teatro di
provincia. Ma è proprio in quell’orlo di tempo e di mondo dove non capita
niente e si passa per andare da un’importanza all’altra della vita, in quegli a
capo stradali, in quel marsupio d’avanzi di tempo e transiti, è lì che
succedono le cose che interessano a Rickard.
Per riuscire in questa impresa, c’era solo un
modo: Rickard non è andato per le strade come tutti gli altri, non si è
appostato nell’abitacolo di un’auto, al tavolino d’angolo di un bar, sul tetto
di un palazzo, a fare quel people-watching paziente e solitario, in
attesa che la sua dedizione venisse premiata dal momento perfetto in cui,
finalmente, nel mirino rimanesse incorniciata una scena memorabile
![](https://www.damianzimmermann.de/blog/wp-content/uploads/112.128678-Phoeniz-AZ-2008-2011.jpg)
visto coi suoi occhi quello che ha fotografato. O meglio, ha visto l’immagine
di quello che ha fotografato. Anzi, ha fotografato l’immagine di quello che i
suoi occhi non hanno mai visto, ma che altri occhi hanno visto per lui. Occhi
che hanno guardato e guardano noi, per noi. Perché Rickard il vero, il reale
dell’America, sapeva già dove trovarlo, senza dover uscire a raccoglierlo con i
suoi scatti: per oltre due anni ha passato al setaccio millimetro per millimetro,
frame per frame, l’America dell’immenso archivio di Google Street View,
guidando virtualmente attraverso le zone più dimenticate, sorvolando i
quartieri più insignificanti, posti brutti, abbandonati e veri, reali. Proprio
lì, in quell’orlo del mondo, Rickard ha trovato e fermato istanti sullo schermo
e con la sua macchina fotografica posta su un treppiede di fronte al monitor ha
poi fotografato lo schermo fermo su quel particolare frame tratto dalla
piattaforma, ricontestualizzandolo e dotando l’immagine di una patina
astigmatica e poetica, data dalla bassa risoluzione.
(Qui
un bel video sulla tecnica utilizzata da Rickard.
![](https://aperture.org/wp-content/uploads/2020/06/2013_05_01_DougRickard-ArtistTalkandSigning.jpg)
![](https://www.davidsoncollegeartgalleries.org/wp-content/uploads/2020/09/v07azdcj4vllmht1ybv5-1024x637.jpeg)
In effetti nasceva così “A New American Picture”, un lavoro originalissimo, per risultato e per la tecnica utilizzata, degno di essere incluso nella mostra annuale “New Photography” al MoMA di New York nel 2011.
![](https://designobserver.com/media/images/83.016417-Detroit-MI-2009-2010-1_525.jpg)
![](https://gupmagazine.com/wp-content/uploads/2021/05/a-new-american-picture.jpg)
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