(Redazione) - Dissolvenze - 23 - Antropologia dell’atterraggio



di Arianna Bonino

Erik Bulatov, “Horizon” (1971-72)

Ho capito che il famoso pezzo sul concetto di sacro nella storia dell'umanità dalle origini ad oggi, pezzo a cui lavoro mentalmente da almeno dieci anni – dieci anni in cui in effetti non ho trascurato (e in buona fede, forse) di rassicurarmi a più riprese che eravamo quasi a tiro –, è invece, alla fine, un'opera che va oltre la mia portata, e ineluttabilmente.
Nel frattempo ho viaggiato molto, notando tutta una serie di ritualità apotropaiche dedicate alla delicatissima fase dei decolli e soprattutto degli atterraggi aerei: coroncine all'Ausiliatrice – sussurrate, con la mano ficcata in tasca dal momento dell'annuncio che “siete pregati di riposizionare lo schienale in posizione verticale”–, arpionaggio della mano del 12B – uno sconosciuto, ma che non commetterebbe mai il sacrilegio di respingere l'artigliata, artigliata che a sua volta scarica sul 12C, che, d'altronde, fa la stessa cosa sul bracciolo esterno, sperando che valga ugualmente a scamparlo –.
Oltretutto, fila 13 mai pervenuta in aereo... e applauso liberatorio e osannante al momento dell'approdo, in posizione fetale offerta al sedile di fronte, che, alla bisogna, pare rivelarsi anatomicamente ideale per recuperare la postura da bagno amniotico, ad occhi chiusi, quasi ormai bramosi, quasi volenti un subitaneo ricongiungimento con l'enso cosmico dell'immutabilmente eterno.
Senza tralasciare l'urgenza dei tanti che – “ pregati di recuperare gli effetti personali dalle cappelliere/alloggiamenti posti sotto il sedile di fronte a voi”, o abbandonando in fretta e furia la “ritirata”, impegnata fuori tempo massimo proprio per un'emergenza intestinale da "ce la faremo?" – si spalmano sul “maniglione di apertura” a “veicolo ancora in fase di manovra e posizionamento” (NDA al lessico da aeroporto dedicheremo una meritata puntata tutta sua), con buona pace di stewards e hostess che troppe ne hanno viste per decidere che ci sia ancora speranza di ammaestrare il gene egoista del viaggiatore e lasciano perdere, rassegnati, parlando dell’ultimo torneo di burraco, che loro non c’erano.
E senza trascurare nel novero delle necessità socio-psico-biologiche da volo l’impellenza di comunicare a qualcuno (non importa chi, e davvero potrebbe trattarsi di un messaggio in bottiglia, pur di riuscire lanciarlo in un qualsiasi mare – e non importa come: i mezzi si sprecano, ma sono tutti concentrati in un Samsung, un IPhone o un Huawei), l'urgenza, dicevo, di comunicare a qualcuno, nell'immediato, a bocce ferme, a terra riconquistata, che sì, anche stavolta è scampata: siamo sani, salvi e atterrati (“Butta la pasta. O chiamiamo The Fork?”).
E senza nemmeno dimenticare la quantità strabordante di scatti al decollo, di esorcismi fotografici, di incredulità rettiliane proiettate fuori dagli oblò, guardando in basso il mondo reale, sempre più in versione Rivarossi.
Ma perché facciamo e tolleriamo tutto ciò, mi chiedo, e perché una volta usciti dall'abitacolo e saliti sul pulmino, iniziamo a praticare anancasmi mentali a scopo sedativo, in attesa di vincere la scommessa interiore che le porte si apriranno da questa parte, la nostra, perché facciamo tutto questo, mi chiedo, mentre rinuncio ancora una volta a scrivere il famoso pezzo sul senso del sacro?
Non è che per caso abbiamo continuamente una paura fottuta di lasciarci le penne?
Non sarà mica che c'è la morte in persona di là, dove non si vede mai cosa succede, nel dietro degli aeroporti, la morte che persino smista i bagagli, disponendoli sul nastro, lei, che sta lì a decidere beffarda che è proprio il trolley verde mela della Delsey, proprio lui, che si vuol tenere tutto per sé, questa volta?
Non lo so se c'è lei, là dietro, a tenersi qualche trolley ogni tanto, ma forse è proprio quella grande ombra a governare i nostri transiti, fuori e dentro i cieli, fuori e dentro le stazioni aeroportuali.
Sarà capitato qualche volta anche a voi di seguire a occhi chiusi i fosfeni, di vederci dentro una palma, una stella, il muso di una tigre.
Un fiore d'elleboro.

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