(Redazione) - Lo spazio vuoto tra le lettere - 24 - "Guardiani delle parole": appunti sparsi sull'Etica della Parola - parte terza

 
A cura di Sergio Daniele Donati

Nelle due precedenti parti (link alla parte prima e alla parte seconda) abbiamo dell’etica della parola affrontato temi per me molto delicati e importanti.
Ma ogni discorso etico
sul
dire umano non può
prescindere dalla valutazione anche degli effetti che la parola, specie se
poetica, ha in coloro che la ricevono.
Il
ruolo di
guardiano persiste
- anzi si rafforza ancora di più – una volta che la parola è
emessa o, ancora più, scritta.
Questo
perché, se è vero, da un lato, che come un figlio abbandona la casa
dei genitori per il suo lungo viaggio nella vita, così fa anche la
parola, è altrettanto vero che dei nostri gesti, azioni, omissioni
siamo costantemente responsabili.
So
che dicendo questo mi pongo in una posizione molto poco accettata in
ambito poetico: quella che fa del poeta,
in quanto
dicitore,
responsabile del suo
dire.

In
fondo però è davvero tanto rassicurante rimanere incuranti, degli effetti dei
nostri versi nel mondo ma, così facendo, non è forse vero che
disconosciamo a noi stessi i due elementi fondanti del dire?
Mi riferisco a:l’eterodirezione, e 
  1. la potenzialità modificativa e
    creativa del reale.
La
rubrica in cui queste mia piccole valutazioni sull’etica
della parola
ha un preciso
titolo.
E quel piccolo spazio vuoto tra le lettere ci ricorda la sacralità,
tanto cara al pensiero ebraico, del silenzio che sta negli interstizi
delle parole. Un silenzio che porta sempre con
 la duplice valenza
di
possibilità di rivalutazione di ciò che si è letto, e
di presa energetica per proseguire nella lettura.

Voglio
essere doppiamente chiaro sul punto: l’inciampo per chi scrive non solo
esiste ma è elemento creativo. E poi siamo tutti in
affanno
espressivo,
e troppo spesso ci
concediamo pochissimi spazi di rielaborazione dei nostri scritti.
Così facendo anneghiamo il mondo delle nostre parole che, volenti o
nolenti, in sovrabbondanza perdono potenza e potenzialità.
Concedersi
dunque un tempo di rivalutazione, una volta scritto, è uno dei primi
doveri etici del poeta,
a mio avviso. E quel tempo non riguarda solo l’attesa del raccolto,
del riscontro – buono si spera – di chi ci legge.

La
prima fermata, lo spazio vuoto appunto, riguarda una percezione fine
di sé. 

Poesia è essenzialmente una pratica, anche
corporea,
e il buon poeta dovrà poter sperimentare l’effetto che le
sue stesse parole hanno avuto su lui stesso.

Anche
questo significa essere guardiani della parola, o almeno della
propria.

Chi emette parola –
scritta od orale in questa sede conta poco – cammina solo su un crinale
molto stretto tra due abissi.
Il suo è un passo
delicato e preciso, che non può concedere spazio alla distrazione.
I due abissi, il più
terrificante dei quali non saprei quale sia, sono:

  1. la tentazione di
    dirsi
    autore unico delle proprie parole,
    ignorando così che scrivere è inserirsi, con delicatezza e
    rispetto, in fenomeno millenario, in un flusso che può ben
    sopravvivere al proprio egotico desiderio di apparire. Si è certo
    autori, ma nella stretta accezione di
    sensibili
    trascrittori di voci altrui

    che si dirigono verso l’altro da sé. 
    Chi scrive è al servizio
    della scrittura, non il contrario.
  2. Non
    aver cura della scrittura come pratica, rifiutandosi di percepire
    gli effetti corporei, psicologici, spirituali e filosofici e di
    pensiero che la propria scrittura ha su di sé e sugli altri. Una
    parola non rielaborata è una parola persa nel vento. Il Talmud dice
    che “
    un sogno non interpretato è come una
    lettera mai aperta
    ”.
    Io, parafrasando quell'antico pensiero, sostengo che “una parola non rivisitata è un parola
    mai, o raramente, fertile.
Certo
questo impone un ritmo lento, una calma interiore che non sempre
quando si scrive si può avere, ma ricordarsi ogni tanto che questa
sarebbe la giusta postura nel rapporto con ciò che si scrive, almeno
averne memoria, aiuterebbe non poco a sopportare gli inciampi, anzi a
renderli dei campi fertili di ricerca profonda.

Viviamo
in un momento storico in cui nulla
resta,

in cui la maggior parte di chi scrive sa già, se non preda a deliri di onnipotenza, che di ciò che scrive non resterà traccia nei
secoli.
Ce lo diciamo tutti, ma pochi si chiedono il perché di
questo fenomeno.

Ecco
il mio piccolo input sul tema: se
non siamo noi stessi a cercare di donare eternità e lentezza alla nostra
produzione e scrittura perché dovrebbero farlo altri per noi?
Se
a una composizione deve seguirne 
un’altra, a stretto giro di posta , e
non siamo capaci di aspettare che la prima germogli e cresca in noi
stessi e negli altri, perché il lettore dovrebbe mostrare
un’attenzione più piena ai nostri stessi scritti?

Uno
dei doveri etici connessi alla scrittura porta a mio avviso un nome
molto demodé: lentezza.
La
Qualità difficilmente si coordina armoniosamente con la quantità.

Questo il Fedro – quello di Robert Pirsig, che qui si onora - lo
sapeva benissimo. 
Cercare la Qualità significa anche non pensare al
poi
e accettare il vuoto che, dopo il parto di una parola, ci riempia il cuore della piena sensazione di esser stati, anche se forse per un solo istante, padri o madri.

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