(Redazione) - Fatuari - 02 - Cosa uscì dal becco dell’aquila


di Diego Riccobene

Omero il rapsodo e il dio norreno Ódhinn: come legare l’uno all’altro?
Stavo, qualche tempo fa, in contemplazione della straordinaria opera di Bartolomeo Passerotti titolata L’enigma di Omero, e pensavo a quel frammento eracliteo che sbugiarda la conoscenza supposta dall’intelletto umano intorno agli epifenomeni e a quanto di essi rimane tra soglia e soglia, la loro ombra di zolfo, sulla trama lunare dell’indecente tappeto intrecciato da noi medesimi. Eraclito riporta il famoso episodio, narrato precedentemente da Aristotele, riguardo l’indovinello che alcuni giovani pescatori posero al padre della poesia: «Tutto quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; tutto quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo con noi».1 L’interpellato non seppe trovare risoluzione al quesito, e questo fatto, tramandano le fonti, lo avrebbe letteralmente ucciso. Riconsiderando la fabula dal finale patetico, mi domando: quanto della nostra integrità sapienziale, e della nostra coscienza siamo disposti, noi contemporanei, a giocarci per giungere alla quintessenza? Qual è, inoltre, la quintessenza? Tempo fa si pagava con la vita lo scotto del mistero irrelato. La sostanza umida da impiegare è molta, molto il calore innato.

Bartolomeo Passerotti, L’enigma di Omero, 1574, olio su tela, Uffizi, Firenze.

La natura dell’enigma nasce dallo smarginare igneo della parola stessa, quella che abbiamo definito, in altra sede, fondamento preciso. Tutto ciò che sappiamo (che millantiamo di sapere) nasce tramite immagini non-rivelate, plurime, di cui, prima o dopo, sarà chiesto conto secondo modi e tempi per lo più misteriosi (non dico misterici perché non intendo qui aprire una discussione esulante dai fini dello scritto).
Alla stessa maniera di Omero, Ódhinn è messo alla prova, in uno dei più celebri carmi eddici, dal gigante Vafthrudhnir, depositario di saggezza: si tratta di un vero e proprio dialogo sapienziale mosso sui ritmi sincopati della sfida, del batti e ribatti in cui l’uno mette alla prova la scienza dell’altro. Tramite la disputa delle parole tutto è in gioco, l’ordine stesso dell’esistenza è interrogato e disvelato, e con esso ogni occulta movenza che ne regola il respiro e le tensioni: la posta è la vita. L’alterco è fondato su questioni così espresse: «se vuoi dall’ingresso / la tua perizia mettere alla prova / come si chiama il destriero che uno per uno trascina / per gli uomini i giorni?».2 La replica di Ódhinn è pronta: «Skinfaxi ha nome che trascina il chiaro / giorno per gli uomini».3
La necessità di porre il dettato in un antro di fuliggine, talché la luce sia perseguibile sì, forse, ma solo a prezzo amaro, quello cioè di navigare nel tratto dissestato dell’in-essenza, è pratica tipica dell’oracolo, i cui primi responsi, in età arcaica, erano espressi dalla sacerdotessa nel bel mezzo di accessi di mal caduco, in modi atrocemente incomprensibili: ed erano in metrica. Era chiesto, quindi, di battagliare con metafore e simboli, di districare il senso di esametri battenti, altrimenti sarebbero stati questi ultimi a prevalere, avrebbero stritolato il postulante nella loro spirale di bellezza terrifica. Si consideri il fato di Edipo, prima reietto, poi glorioso (l’indovinello della Sfinge da lui è stato sciolto, in fin dei conti), poi nuovamente defraudato della sua umanità. O ancora: i tanti presagi inviati dagli dèi in forma di sogno, e basterà questo a giustificare il fatto che in Grecia c’era chi ci campava, dai proventi dell’oniromanzia – ce lo assicura, tra gli altri, Artemidoro.
Rimanendo invece nell’ambito della cultura norrena precristiana, esiste, in qualità di tecnica e formula poetica impiegata dai cantori islandesi, gli scaldi, un particolare uso delle parole capace di attuare la torsione del dire che sto cercando di descrivere, quella enigmatica e volutamente opaca. Si tratta delle kenningar. Esse non sono altro che formule perifrastiche molto vicine al concetto di metafora, utilizzate per definire fenomeni di svariatissima natura, eventi, divinità, elementi naturali o artificiali. Sono impiegate in frequente misura, di cui testimonianza molto evidente è il corpus dell’Edda, sia in prosa (Snorri Sturluson ne fu uno degli araldi a noi più tramandati) che in poesia (gli innumeri carmi del canzoniere eddico). Ecco alcune immaginifiche colate di magma metaforico: la guerra è chiamata «tempesta di spade e alimento di corvi», oppure «pioggia di scudi rossi»; si può leggere, ad esempio, «rugiada delle armi» per sangue, «salone della luna» per cielo.
Chi altri se non Borges avrebbe potuto rimanere affascinato – al limite dell’ossessione – da questo arcaico gorgo interpretativo, questo rituale mitopoietico? Mi piace figurarmelo intento, in un’enorme biblioteca cava in Buenos Aires, mentre investiga, perso nello specchio di labirinti riflessi a rovescio, le ragioni delle metafore vichinghe; cercando, insomma di spargere terra feconda sopra i «vermi del sangue» o di cavalcare «il destriero della catena della terra». Scrisse parecchio intorno al tema, tra cui un saggio raccolto in Storia dell’eternità (libro da leggere almeno una volta, in vita o in morte, come vi pare) ove, oltre a riportarne un ampio catalogo, si interroga su quanto l’artificiosità della kenning possa alterarne la fruizione diacronica. È vero, «le kenningar indugiano in sofismi, in esercizi menzogneri e languidi»4, ma aggiunge in chiosa che esse riescono a provocare la «lucida perplessità che è l’unico vanto della metafisica, la ricompensa e la sua fonte».5
Così Borges analizza le tecniche poetiche scaldiche, riportando anche una strofa esemplificativa di come l’uso diventi, talora, parossistico:

I tingitori dei denti del lupo
prodigarono il sangue del cigno rosso.
Il falco della rugiada della spada
si nutrì di eroi della pianura.
Serpenti della luna dei pirati
compirono la volontà dei ferri.6

Non analogie o semplici perifrasi, ma metafore germinate da metafore, florilegi di immagini, un geyser in bollore continuo e instancabile. Ho trovato delizioso, nel medesimo libro, il riferimento al concettismo tipico di letterati barocchi quale Baltasar Gracián, che fanno della metafora insistita e ridondante non un mero stilema tipico dell’esornazione secentesca, ma un precetto propriamente ontologico; in merito Borges riporta gli studi fatti sul Gracián da Paul Groussac, che tesse questa similitudine:

«È frequente trovare nei templi indiani scrigni di sandalo e di lacca delicatamente intarsiati, con triplo e quadruplo fondo chiusi da complesse serrature: il curioso che riesca ad aprirle una dopo l’altra, penetrando fino al misterioso ultimo nascondiglio, trova una foglia secca, un pungo di polvere». (p. 142)

L’Edda di Sturluson tramanda uno dei suoi carmi, intitolato Skáldskaparmál ovvero Il linguaggio poetico, in cui si racconta di un uomo di nome Aegir, versato assai nell’arte magica, che apprende dal dio Bragi i segreti delle kenningar più celebri, perlustrandone le ragioni nel folto di antiche e etiologiche origini: perché, citando l’episodio forse più affascinante tra quelli riportati, la poesia è chiamata «bevanda degli Asi» o «sorso di Ódhinn»? Il buon Bragi spiega pazientemente la storia di un uomo sapientissimo, Kvasir, creato dallo sputo di esseri divini raccolto in un calderone, che poi fu ucciso da alcuni nani gelosi e il cui sangue fu mischiato con miele, per ottenerne formidabile idromele. La bevanda fu in seguito trafugata da Ódhinn in persona dopo che ebbe assunto forma di aquila.7

Peter Nicolai Arbo, La caccia selvaggia, 1872, Galleria nazionale di Oslo, olio su tela

Quanto siamo disposti a intorbidare nel mistero del dettato, a scardinarne il doppio fondo enigmatico per aprire, infine, l’agognata serratura ed averne in cambio nient’altro che polvere, rimasuglio di vita? Polvere di zolfo è quanto ci rimane del nascondimento dell’opus, come in Atalanta fugiens del poeta e alchimista Maier, ove il discorso a commentario dell’epigramma XI descrive la necessità di una «divina genialità per scorgere la verità celata sotto le tenebre».8 Qui si parla di sbiancare Latona, la quale si pone come corpo imperfetto, che frammischia Sole e Luna e chiede innalzamento a un sito più degno per poi, successivamente, essere sprofondata in uno vilissimo in modo da attuare il processo trasformativo.
Come anche accade ai personaggi sopra citati: Ódhinn è pur sempre colui che si impiccò a Yggdrasil, sacrificandosi a sé stesso, con una lancia nel costato (reminiscenze?) per ottenere le rune, l’alfabeto iniziatico, lingua e sapienza.9
Sorrido pensando a come oggi i contemporanei tratterebbero i vezzi che lo skald usava con richiamo estatico. Noi che siamo ossessionati da un sintetismo lirico egoriferito, e sbianchiamo alla lontana eco della parola «artificio». La nostra weltanschauung, sommamente etica, nulla ha a che vedere col travestimento del mondo naturale e spirituale che percepiamo a pena, e di cui la kenning è corrispettivo linguistico: nominare per possedere, possedere per celarsi. Il travestimento e la menzogna sono fondamenti, la natura è un enigma così come lo è l’identità di chi la pronunzia. Cosa ne potremmo mai sapere di bellezza terrifica, di polle sapienziali, di nicchie nascoste e di ierogamie, noi che all’idea di un gigante che impone una contesa di enigmi al dio della magia e del sapere esoterico, sorridiamo bonariamente, con quel gesto paternalistico tipico della cultura stabilita, come si fa al cospetto di una storia ben congegnata per intrattenere un poppante?
Torno all’episodio poco sopra riportato: il dio in forma d’aquila, che fugge dai suoi inseguitori con l’idromele nel becco, nella fretta del volo «lasciò cadere all’indietro un po’ di met, e nessuno se ne avvide, e lo ebbe chiunque ne volle. Noi la chiamiamo la parte del poetastro».10
Siamo una stirpe lurida, di poetastri, questo è il fatto.
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NOTE
1 -  G. Colli, La sapienza greca – Vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14 [A 24].
2 - Il canzoniere eddico, trad. a cura di Piergiuseppe Scardigli, Milano, Garzanti, 2004, p. 40.
3 - Ibid.
4 - J. L. Borges, Storia dell’eternità, Adelphi, Milano, 1997, p. 56.
5 - Ibid.
6 - J. L. Borges, M. E. Vazquez, Letterature germaniche medievali, Adelphi, Milano, 2014, p. 141.
7 - Cfr. Snorri Sturluson, Edda, Adelphi, Milano, 1975, pp. 131-134.
8 - M. Maier, Atalanta fugiens, Ed. Mediterranee, Roma, 1984, Discorso XI.
9 - Crf. Canzone dell’eccelso, 138. Ne Il canzoniere eddico, op. cit., p. 40.
10 - Snorri Sturluson, op. cit, p. 134.


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