“Sogna il bicchier d’acqua, tace il calendario”*
Ho
ventidue anni. Doveva avere
questo
aspetto in autunno anche Cristo
a
questa età; ancora non portava
la
barba, era biondo e le ragazze
lo
sognavano, la notte.
(“Ritatto”,
Miklós Radnóti, 11 ottobre 1930)
|
Albrecht
Dürer, "Autoritratto con pelliccia", 1500, Alte
Pinakothek, Monaco di Baviera |
Quando
diversi anni fa ho attraversato l'Ungheria, non ho pensato alle fosse
comuni.
Abda, per esempio, è un posto tranquillo che ogni
giorno si sveglia sulle rive del fiume Rábka. Una delle innumerevoli
fosse comuni riempite di giustiziati durante la Seconda Guerra
Mondiale si trovava proprio in quel posto tranquillo.
Quando
in quel giugno del 1946 la fossa di Abda viene riaperta, tra gli
altri corpi che vi si trovano c’è anche quello di Miklós Glatter,
ucciso, come gli altri, il 4 novembre 1944, come gli altri con un
colpo alla nuca.
In
quasi due anni ne succedono di cose, di cose ne succedono anche in
una fossa comune, in quasi due anni. Eppure accanto a Miklós
Glatter c’era un quadernetto che conteneva parole ancora leggibili.
Quel quadernetto, noto come "Taccuino di Bor", edito in
seguito in Italia con il titolo “Scritto verso la morte”** è
come un messaggio in bottiglia che consegna Radnóti al futuro che
non ebbe:
“Un poeta non si può ingannare: ciò che ha scritto
continuerà a ripeterci chiarezza contro ambiguità”, scrive
Salvatore Quasimodo nella recensione che dedicò al volumetto
contenente le cinquantasette poesie e apparsa sul Tempo il 20 gennaio
1965.
Ingeborg
Bachmann, che conosceva bene l’italiano, ne rimase tanto colpita da
parlarne con Hans Magnus Enzesberger, che, altrettanto entusiasta dei
versi di Radnóti, ne favorì la traduzione tedesca.
Immagino
Miklós Radnóti braccato, arrestato, carcerato, deportato, e infine,
costretto dai nazisti ungheresi a mettersi in marcia, tutti uguali,
tutti in fila, tutti nessuno, tutti indossando gli zoccoli della
morte. Miklós Radnóti, poliglotta, letterato colto e vivace poeta,
premiato in vita per le belle sillogi pubblicate, escluso
dall’insegnamento perché di origine ebraiche. Lui che ha
rifiutato di fuggire con documenti falsi e che ha abbandonato casa
sua solo dopo aver nascosto i suoi versi in un posto segreto nella
libreria, nel tentativo di metterli in salvo prima di essere fatto
prigioniero. Cosa ci fa lui, un poeta, in un campo di concentramento?
Cosa
ci fanno tutti?
E
lui tiene il taccuino sempre addosso, nascosto. Di notte, o in
qualche angolo di tempo sfuggito al nulla, annota i suoi versi con
una matita che ogni giorno si consuma, poi con un mozzicone di legno
bruciato, poi con non so cosa, ma scrive.
Quanti
– no, quando, tutti avranno pensato: “Quando finirà tutto
questo? Perché tutto questo non può esistere, non può essere vero.
Quando finirà questa cosa che non poteva esistere, ma c’è?”.
E
quanti – no, quando, tutti avranno iniziato a non chiederselo più,
a chiedersi piuttosto: “Ci sarà ancora qualcuno, qualcuno che
possa ricordarsi di me, che dica che sono stato, che c’ero? Chi lo
farà poi, dopo tutto?”
Nel
messaggio in bottiglia di Radnóti (così come in quello di Josef
Čapek di cui si può leggere qui)
ci sono milioni di calligrafie, ci sono tutte: di chi scrisse e andò
perduto, di chi non scrisse, di chi tacque. Miklós
Radnóti muore nella fossa comune di Abda, con le sue poesie addosso.
Giorni,
notti, settimane, mesi, anni e tutto il futuro di tutti.
Similitudini
Tu
sei come il ramo di un albero frusciante,
se ti chini su di me,
e hai un misterioso sapore,
sei come il papavero,
e
come il tempo che fa anelli agli alberi
così sei
eccitante
e pacificante insieme,
come la pietra sopra la
tomba,
sei come un amico cresciuto con me,
e ancora oggi non conosco
interamente il profumo dei tuoi pesanti capelli,
e talvolta sei azzurra,
e ho paura, non lasciarmi,
tu sei un esile fumo vagabondo,
e ho paura di te, a volte,
quando hai il colore del fulmine,
sei come la solare guerra dei cieli:
oro scuro -
se ti infuri sei proprio come l’ù,
dalla voce profonda, dal lungo buio suono,
e allora io disegno
attorno a te con un sorriso
un nodo di luce.
|
Miklós
Radnóti e la moglie Fanni Gyarmati |
“Quando
finisce l’infanzia? E quando la gioventù? E la vita? Non ce ne
accorgiamo. Due volte soltanto ho potuto catturare l’istante in cui
un petalo lasciava il proprio spazio e toccava terra volteggiando.
Erano due tulipani, bianchi tutt’e due.
Morto
è già il petalo che volteggia
quando
inizia la caduta?
Oppure
muore quando tocca terra?”***
_______
*** Versi tratti dalla poesia “Notte”, sez. “Strisce di carta”, in “Scritto verso la morte” (Notte//Il corpo giace immobile ma solo molte le ombre/ che svolano qui intorno accanto ai muri./Cammina l’orologio da tasca, sogna/ il bicchier d’acqua, tace il calendario.)
**Miklós Radnóti
“Scritto verso la morte”
Casa editrice Salvatore Sciascia, 1964
Traduzione di Marinka Dallos e Gianni Toti
***Miklós Radnóti
“Il mese dei Gemelli: Diario sull’infanzia"
Infinito edizioni, 2021
Traduzione di Andrea Rényi
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