(Redazione) - Fisiologia dei significati in poesia - 03 - Poiesis: analogia di una gestazione (Parte 1)

 
di Giansalvo Pio Fortunato

La specificità di esistenza della parola e del suo significato rappresentano elementi essenziali per una definizione ontologica non della semplice opera d’arte, quanto per l’identificazione del peso d’essenza che l’opera d’arte possiede. Quest’affermazione, alquanto criptica, deve quantomeno secernere un grado razionale [1] di consapevolezza, potendo addirittura salire – in climax – ad una chiara esortazione morale di responsabilità verso l’opera d’arte. Essa, infatti, non incarna banalmente una produzione; o meglio: incarna una produzione, ma entro un significato tanto più universale, tanto più ampio, tanto più metafisico. Dinanzi a quest’ultima affermazione non si deve in alcun modo scadere – precisiamo - in misticismi o cognizioni miracolistiche di sorta, ma si necessita e bisogna calarsi entro una matrice che sappia apprezzare l’inestricabile fisica / fisiologia dell’opera d’arte rispetto alla problematicità ontologica [2]. In tali termini, allora, emerge prepotentemente la poesia, che è arte della parola, ma è anche e soprattutto arte dei significati, arte dei riferiti.
Non è certamente obiettivo di chi scrive tenere una lezione di etimologia o una discussione professorale, ma è essenziale (leggi come inderogabilmente necessario, univocamente richiesto) richiamare alla memoria l’origine verbale della parola Poesia. Essa deriva, infatti, da un verbo, poieo [3], che superficialmente viene accomunato al semplice e riproponibile creare, ma che schiude, in realtà, una resa significante assolutamente più profonda: il verbo poieo , infatti, assume maggiore verità e potenza trasmettente nel più materialistico produrre che – ed era evidente fosse presente in ombra, già da principio, la lezione del filosofo tedesco – Martin Heidegger traduce mirabilmente in Hervorbringen. La possibilità compositiva tedesca richiama profondamente l’attitudine greca alla nominazione complessa del mondo, il che avvalora profondamente la ricerca minima compiuta in questo articolo: la sorpresa, infatti, risiede nel considerare entro l’atto poetico la sublimazione di un percorso ontologico microcosmico, che si schiude già inderogabilmente nella fisiologia della parola – dunque nella fisiologia del suo significato. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che, seppur con annotazioni differenti e tanto più comuni [4], nella parola si compie la medesima azione che è nella poesia. Per cui, dinanzi ad una simile considerazione, risulta ovvia l’esigenza di un’attuazione differenziata tra la naturale azione discorsiva e l’atto poetico, altrimenti dove sussisterebbe la differenza? Altrimenti dove si creerebbe il valico ontologico di differenziamento?
Ritornando, invece, al nostro Hervorbringen, è opportuno decostruirlo nel più funzionale her-vor-bringen, che può essere tradotto nell’approssimato portare qui dinanzi a sé. Una resa, questa, alquanto anomala per una generalizzazione che, in italiano, accomuna il verbo poieo al più elementare creare. È evidente, infatti, la dimensione tanto più materiale, tanto più – per certi versi – antiassolutista: ci si pone, insomma, in una sorta di relatività interessantissima, entro la quale si inscrivono due spazi distinti ed una referenzialità del soggetto che, tuttavia, non è assoluta. È molto spesso, infatti, ridondante la tipica espressione del creare dal nulla con la quale si fa riferimento all’atto creativo: nel creare, almeno nella sua referenzialità semantica-ontologica, è già inscritto l’ex nihilo, l’assenza di una pre-essenza [5] entro un deittico distinto. Non casualmente, infatti, il creare è la modalità significante con la quale ci si riferisce all’operato di Dio che, nell’ottica cristiana / ebraica, è miracoloso in quanto genera la materialmente-ontologicamente impossibile transizione dal non Essere all’Essere, valicando l’Essere nella sua materialità. Con il poieo, invece, questa materialità esiste: esiste, quindi, una sostanzialità interpretabile alla luce del solo divenire, inscritta in un nulla letto come non ancora o in un nulla letto come già stato. E questo dettato, lo precisiamo, non è il senso o il surrogato di un vaneggiamento “metafisico”, ma il risultato di una delle leggi basilari della meccanica e chimica moderna. È Lavoisier, infatti, che, nella sua legge della conservazione della massa, sentenzia: “Nulla si crea, nulla si distrugge: tutto si trasforma”. Questa materialità [6], allora, implica l’assenza di un atto assoluto – come vorrebbe la creazione – per edificare un’andatura di transizione, un’andatura di passaggio: il poieo è l’atto di chi si avvicina, o meglio: di chi si rende palese hic et nunc. Non è un caso, infatti, che il corrispettivo, seppur più approssimativo e meno didascalico dell’ her-vor-bringen heideggeriano, è il dinamico pro-durre che, nella sua resa autentica di significato, è esprimibile nel condurre a favore di qualcuno, dato che la radice verbale è quella propria del duco / ducis ed il pro, invece, introduce in latino il complemento di vantaggio.
In questo modo, allora, si definisce uno scenario molto chiaro, malgrado l’elementarità della ricostruzione etimologica, nel quale si evidenziano alcuni capisaldi inevitabili: il poieo non è un diktat alla fiat lux, ma è piuttosto una transizione da un luogo diverso dal qui verso un qui, definibile finalmente alla portata (a favore) del poietes. Tale primo assunto transitorio – spaziale va congiunto, inoltre, ad un altro dato assolutamente inevitabile: essendo una transizione rispetto ad un non quiqui, deve necessariamente presupporre l’esistenza, il suo essere; altrimenti non avremmo un non qui (da leggere come è, ma non dove sono io), quanto l’elisione del deittico per la più generale negazione, che non ha bisogno di alcun aggiuntivo posizionale. Aldilà di questo appiattimento ultimo sull’ente, essenziale per comprendere il volto del poieo, è necessario, quindi, capire in quali termini possa concepirsi questa transizione. Tale divenire è, infatti, a tutti gli effetti fenomenico, per cui la linea di passaggio è inscritta entro l’esigenza di un disvelamento. È qui che si gioca la completezza della carta ontologica: per divenire fenomenico, nel dettaglio, non si intende l’associazione gravitazionale all’ente, che richiederebbe una qualificazione particolare – quindi un divenire atto, che è proprio di una determinazione -, ma si fa riferimento all’universale, fungente da base all’universale concreto. Per capirci meglio: il disvelamento è proprio del poieo, così come il poieo è proprio del disvelamento, collocando questo assunto in una linea ontologica – non più solo metafisica – che supera ogni ente (quindi ogni particolarità), perché nessuna particolarità, seppur generalissima [7], può arrivare alla relazione universale che si inscrive nel rapporto tra poieo e disvelamento. È qui che, allora, si gioca la carta “pienamente” ontologica: non si ragiona sull’ente, esprimendo il “che cos’è” dell’ente, ma si ragiona sull’Essere, che è guardato dalla parte dell’Essere. In soldoni? Stiamo compiendo un salto dirompente ed importante: non andiamo più a ragionare semplicemente sulla determinazione del poieo - disvelamento (sul prodotto, che è svelato [8]), ma andiamo a ragionare sul poieo – disvelamento nella sua/loro essenza, senza restrizioni o determinazioni in forme temporalmente definite.
Ma perché, in una rubrica che cerca di ragionare sulla parola, è presente un simile taglio che, almeno apparentemente, pare tagliare le gambe ad ogni legame con le poesie?
Perché nella letteratura, soprattutto quella odierna, si incorre frequentemente nel rischio che, chissà come mai (sarà per il legame intrinseco tra Essere e Poieo), ha fortemente interrogato proprio Heidegger in termini di collocazione orientata ad una interazione maggiormente ontologica della metafisica. Epistemicamente, infatti, l’azione ontologica rispetto alla metafisica è equivalente all’azione della Poesia rispetto alle poesie. Dato, questo, che purtroppo viene altamente sottovalutato, creando molto spesso dei vuoti conoscitivi enormi o delle lacune saccenti che radicalizzano il solo ragionamento sulla singolarità della poesia, senza capirne la legislazione o fisiologia assoluta.
Fatto questo breve appunto, assolutamente essenziale, possiamo passare, dunque, alla comprensione del poieo – disvelamento. Disvelare significa materialmente togliere un velo, creare dunque una transizione da uno stato all’altro. Il disvelare, infatti, è l’azione propria di uscita da un nascondimento, da un buio, per determinare il passaggio alla luce, la ricezione di un’alba. Anche nel linguaggio quotidiano [9], lo svelare rappresenta l’eliminazione di un alone d’ombra, l’uscita verso e poi entro la conoscenza: è questo che sussiste nello svelare una statua, nello svelare una persona, nello svelare un’identità, nello svelare un retroscena. Ci troviamo, insomma, innanzi ad un portare a conoscenza: un portare a conoscenza che, precisiamo, ha ragione d’essere tale se non è conosciuto, pur esistendo. Il che fa capire che, pur essendo, non ci è; ossia non è a noi. In tali termini, allora, non si sta ponendo la discutibilità sull’Essere, ma sull’Esser-ci; o meglio, più che una discutibilità, è un dato di fatto: essendo, non ci è, non ci appare, non è a noi. Questo percorso, allora, introduce irreversibilmente il legame con il poieo che, essendo un portare qui davanti a sé (a favore del proprio sguardo), è l’azione stessa dello svelamento. Lo svelamento è l’Esser-ci, già essendo (già Essere), che è Esser-ci in virtù della transizione a favore del proprio sguardo, del proprio Essere. Ed è così che si istituisce la biunivocità tra poieo e disvelamento: l’Essere è Esser-ci nel momento in cui è portato a favore del recettore, ed il portare a favore del recettore è veramente tale nel momento in cui l’Essere è Esser-ci. Tale connessione, volutamente prima entizzata [10], riesce ad essere ampliata tramite il rapporto tra poieo e verità, assumendo definitivamente una radice assoluta. La verità (alethèia in greco) è l’atto del disvelamento e l’assunzione prima del disvelamento e poi della ricongiunzione alla sua matrice originaria è stata volutamente strategica: presentare il disvelamento già come verità avrebbe significato trovarsi dinanzi quasi ad un’ex machina o ad una pretesa messianica che, soprattutto se alle poesie, non è assolutamente riconosciuta. Tuttavia, il legame presentato è assolutamente immediato: lethèia può essere tradotto come nascosto o essere nascosto, l’aggiunta di un alpha privativo (a) ne inscrive la negazione che è, per una storiografia etimologico-filologica, sì contraria nel suo segno, ma anche successiva. L’essere nascosto, nel passaggio alla verità, viene privato del suo nascondimento e diviene un non essere nascosto più. In tali termini, allora, non si tratta, ancora una volta, di argomentare sull’Essere o sul non Essere, ma sull’Essere e sull’Esser-ci, che è risultante dell’eliminazione del nascondimento; dunque del disvelamento.
In questo modo, la poiesi è biunivoca alla verità-aletheietica [11] e la sublimazione poietica, la Poesia, è biunivoca alla verità-aletheietica.
Quindi? Cosa significa tutto questo? Significa che la parola, atto primario della poesia, ha la responsabilità di riuscire a condurre l’uomo, nelle dimensioni apprensionali e significanti già precedentemente analizzate [12], entro un ramo di vastità che è ascrivibile alla totalità di un principio di passaggio dall’ombra non delle cose, ma della dialogica delle cose e con le cose, incarnando quel grande sforzo che è l’applicazione dell’ermeneutica collocante.
Ma la Poiesis è, in fondo, l’analogia di una gestazione ed ogni gestazione necessita di tempo per metabolizzare. Per cui, dal prossimo intervento, capiremo questa sommatoria, apparentemente anti-poetica, che risvolti possiede. Per ora, siamo al principio delle contrazioni!
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NOTE 
[1] per grado razionale di consapevolezza si intende lo sforzo onesto di giudizio nei confronti delle trattazione che verranno presentate. Quindi chi scrive si augura che una simile ricerca non sia fautrice di un semplice sforzo concettuale, ma soprattutto garanzia di un’onestà pragmatica ed operativa; un’onestà di giudizio, per capirci.
[2] Il termine ontologia è riferito sempre, in questo articolo, entro la frontiera heideggeriana, ritenendola la struttura metafisica più fenomenica alla quale riferirsi, malgrado provochi un’elevazione definitiva dell’Essere rispetto all’ente; o forse proprio per questo!
[3] La scelta per poeio e non per poiein, a cui si riferisce Heidegger, è avvenuta per due motivi: 1. rigore grammaticale, 2. maggiore vicinanza al recettore, in questo primo passo. Il rigore grammaticale è basato sulla banalissima regola greca per cui un verbo è indicato alla prima persona singolare e non all’infinito presente. La maggiore vicinanza al lettore/ recettore è perché il poieo (prima persona singolare) ha una delimitazione intrinseca maggiore che non “spara” immediatamente nell’assoluto dell’Essere, ma consente ancora un legame entro la realtà dell’ente. Nel prossimo articolo sarà compiuto questo passaggio.
[4] Per comuni intendo forme che non vanno a riflettere la vastità sublimata dell’azione poietica in poesia.
[5] Per pre-essenza non si intende uno stadio primitivo all’essenza, ma un’essenza antecedente all’essenza nel qui ed ora. La visuale è volutamente posta, almeno fin’ora, nella matrice ermeneutica circostanziata; non in quella assoluta.
[6] Materialità: nominazione dell’autopienezza di una sostanza materiale (vedi come nella cosalità)
[7] Per generalissima si intende un particolare particolarmente ampio, ma sempre particolare; dunque entizzato. Vedi la lezione di Hume e l’impossibilità, seppur nella ragione astratta, di avere un’idea generale e vantaggio di un’idea sempre particolare. Questo dettato viene, almeno in parte, a cadere in termini ontologizzati, perché essi posti entro una frontiera già ermeneutica; dunque di pensabilità.

[8] Si dà per assodato che ormai si pensi al poieo come ad un pro-durre; quindi come un portare a vantaggio di.

[9] Si scende momentaneamente nel linguaggio quotidiano, entizzato, per rendere il significato etimologico più fruibile.

[10] Entizzato: resa all’ente; quindi nella prospettiva metafisica classica secondo Heidegger.

[11] Verità-aletheietica è per ragioni puramente storiografiche filosofiche. Per differenziare, quindi, “questa verità” dalle altre diverse interpretazioni, molto più teoretico-definizionali, che la filosofia, nel tempo, ci ha fornito.

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