(Redazione) - Passaggio in Grecia (Το πέρασμα στην Ελλάδα) - 02 - In viaggio. L’Odissea di Nikos Kazantzakis

 
di Maria Consiglia Alvino



Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!
La virtù più fertile al mondo, la santa infedeltà,
segui fedele tra risa e pianti, e più in alto sali!

 
N. Kazantzakis, Odissea, XVI 960-962
Traduzione italiana di N. Crocetti


In estate forse più che mai accade di trovarsi di fronte ai propri confini e infiniti mari; allora, come un miraggio, riappare Itaca lontana, le orecchie si aprono a profonde Sirene e il cuore scalpita per il desiderio di nuove partenze, nuovi approdi.
Non c’è allora che da ritornare al personaggio di Odisseo, alle sue mille facce, alle sue mille voci che ancora ci parlano. Ben lo sapeva Nikos Kazantzakis (Iraklion 1883 – Freiburg in Breisgau 1957), che ne ha fatto l’ispiratore della sua, tutta nuova e originale, Odissea, tradotta in italiano da Nicola Crocetti nel 2020. Composta tra il 1925 e il 1938, l’Odissea di Kazantzakis è un’opera complessa e multiforme, come il polytropos eroe che la percorre nello spazio di 24 canti, uno per lettera greca, per un totale di 33.333 versi (omaggio a Dante, di cui l’intellettuale cretese era stato profondo conoscitore e traduttore). Kazantzakis segue in parte la versione del mito, fatta propria da Dante nel canto XXVI dell’Inferno, per cui Odisseo, una volta tornato a casa, non avrebbe resistito al desiderio di ripartire. Se non che, questa volta non è per sete “di virtute e canoscenza”, ma per amore della libertà stessa. Quella libertà che appare l’oggetto della ricerca del protagonista, alter ego dell’autore, sin dal proemio:
La Libertà, fratelli, non è un vino, né una donna dolce,
né beni nelle dispense, non è un figlio nella culla;
è un canto altero e solitario che nel vento muore!
(Proemio, 55-57).


Come a dire che la libertà non sta né nell’ansia borghese del possesso delle cose, neppure negli affetti personali, ma solo nella fedeltà a sé stessi, nella capacità di andare oltre le cose della vita. La libertà diviene, anzi, la negazione di ogni umana fedeltà e l’apertura a una ricerca di senso infinita e, in ultima analisi, inestinguibile.

La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive
altre patrie dagli occhi ridenti, altre anime carnose,
tristezze e gioie di ogni sorta, fratelli e sorelle,
che sedute sulle rive aspettavano il mio ritorno!
Che tu sia benedetta, vita, per non essere rimasta
fedele a un solo matrimonio, come una donnicciola;
è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele,
per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore,
ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio.

(XVI, 951-959)
 
A tale consapevolezza Odisseo giunge dopo un lungo e abissale percorso, che lo porta a scontrarsi con il passato (Menelao, Elena e Idomeneo); con i regimi coevi (il regno cretese di Idomeneo e il regno di Egitto), che cerca in modo prometeico di sovvertire, affascinato dalle idee rivoluzionarie dell’ebrea Rala e di Nilo, Falcone e Scarabeo, ritratti di Rosa Luxemburg, Lenin, Trockij e Stalin; con l’utopia della fondazione di una città ideale suggeritagli dal ritiro, di sapore mosaico, su un alto monte; con Dio stesso, colpevole di mettere grandi desideri nel cuore degli uomini, per poi abbandonarli.
Tuttavia, la divinità, e con essa una possibilità di umana salvezza, resta oggetto di spasmodica ricerca. Nella sua catabasi Odisseo incontra delle ipostasi di Dio in Buddha, sotto le mentite spoglie di un principe, e in Cristo, il “Pescatore” (XXI). Con quest’ultimo l’eroe, in più luoghi definito con l’epiteto di Deicida, ormai vecchio, ha un disarmante e commovente dialogo, terminante in un disperato abbraccio: ancora una volta il problema esistenziale di Odisseo-Kazantzakis è la natura della libertà, che per l’eroe non coincide con la pace e la misericordia, ma con il “battersi senza speranza in terra” (XXI 1351).
La negazione di Dio implica, in senso nietzschiano, una reinvenzione del personaggio quale oltre-uomo. Un uomo che scopre sé stesso e la sua grandezza nella sua infinita piccolezza, fino a comprendere di aver avuto per tutta la vita quale compagna solo la Morte; con lei, ormai divenuto quasi santo, l’eroe dialoga come un fratello, in un modo che ricorda Francesco d’Assisi (figura del resto a Kazantzakis molto cara). Non c’è salvezza, sociale e individuale, se non nel recupero della Virtù personale, quell’Aretè, da Socrate in poi, tutta greca.
Il viaggio termina al polo Sud con l’abbraccio con la Morte stessa, che prende Odisseo in un’ultima risata, trasformandolo, ormai divenuto quasi un dio, in pura luce e liberandolo dall’ultimo laccio: la libertà stessa.
 
Il grande corpo del Giramondo svapora, si dissolve,
e lentamente nave di ghiaccio, amici, memoria, frutti
svaniscono come nebbia, gocce di guazza in mare.
La carne dissolta, lo sguardo fosco, il cuore fermo.
La grande mente balza sulla vetta del suo riscatto;
un ultimo frullo d’ali vuote, poi, ritta nel vento,
si alza in volo, esce dall’ultima gabbia, la libertà.
Tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta
sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne:
Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!
 
(XXIV 1387-1394).

Sono tante le influenze alla base dell’opera: oltre Omero e i tragici, Agostino, la filosofia di Nietzsche e Bergson, Dante, Shakspeare, Thomas More, Goethe, Darwin, gli ideali ascetici propri della tradizione patristica. Ma non bastano a spiegare l’inquietudine spirituale ed esistenziale, tutta originale, che rende l’Odissea di Kazantzakis un’opera dal carattere epico e universale, nella quale convergono, come in una summa, tutti i paradossi della vita umana.

Nei versi del Cretese Odisseo è ancora una volta non solo figura archetipica dell’infinito desiderio di vita e conoscenza proprio di ogni essere umano, ma anche emblema dell’uomo in costante ricerca di senso, diviso tra luce e tenebra, Dio e Nulla, mediocrità ed eccezionalità, volontà e destino, materialismo e utopia, tensione all’infinito e senso della precarietà dell’esistenza. È la storia dell’individuo e dell’umanità, del suo percorso di lotta perenne con la vanità, il desiderio di possesso, le immagini di Dio.
È, in ultima analisi, una storia di formazione e di liberazione, attraverso la quale, forse, lo stesso Kazantzakis arrivò a sperimentare quella forma di libertà espressa già nel II sec. d.C. dal poeta greco Demonatte e che fece incidere sulla sua tomba: Non spero nulla. Non temo nulla. Sono libero.
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