(Redazione) - Dissolvenze - 34 - Le fragole e i ragni

 
Di Arianna Bonino

Anni fa avevo discusso energicamente con qualcuno se esistesse o meno una "letteratura svizzera". Io avevo - e ho, ovviamente - la mia opinione al riguardo.
Sta di fatto che, quando sento nominare le ridenti valli dell’Emmenthal, inizio a percepire rumor di campanacci ed è come se una tiepida brezza mi portasse l’afrore primaverile di un pascolo d’alta quota: latte fresco, ronzii di api stordite dall’ebbrezza del nettare e del sole, testoline bionde di bimbi giocosi e villaggi raccolti come greggi bianche nel cuore di valli fiorite. Innegabilmente, la Svizzera evoca anche questo.
Però anche Jeremias Gotthelf (Morat, 4 ottobre 1797 – Lützelflüh, 22 ottobre 1854) visse immerso nell'Emmenthal, scenario che infatti fa da sfondo alle vicende narrate nei suoi racconti.
Gotthelf nacque in realtà come Albert Bitzius e scelse il suo pseudonimo forse a suggello del percorso intrapreso sulle orme del padre, anche lui pastore protestante; dopo aver studiato teologia (approdandovi peraltro avendo dimostrato scarsa propensione e altrettanta manchevole resa per gli studi di altro genere), divenne vicario. Ma l'idillica immagine di un salvatore di anime che va predicando di villaggio in villaggio sotto i tersi cieli svizzeri non coincide esattamente con l'indole di Gotthelf. Nell'Emmenthal infatti ci arrivò perché doveva essere allontanato in una sorta di isolamento che durò per tutta la sua vita.
Fu l'ultima lunga tappa di un percorso fatto di "stazioni" non esattamente paragonabili a quelle di una via crucis: la sera si travestiva da fattore o commerciante per godere dei piaceri delle taverne (e non solo). Quando nel villaggio iniziavano a prendere consistenza le voci sulle sue abitudini crepuscolari, veniva spedito altrove. Lützelflüh fu la stazione definitiva.
Ebbene, il "Ragno nero", il suo racconto più noto, non deve essere preso alla leggera, anche perché leggero non è. Tanto per cominciare, la prima parte promette le gioie che accompagnano la preparazione di un momento felice come può esserlo un battesimo. C'è però da dire che Gotthelf non risparmia alcun dettaglio di costumi, usi e rituali preparatori, il che francamente potrebbe scoraggiare la lettura se non armati di spirito di sopportazione ben allenato. Insomma, è un lunghissimo preambolo che non risulta esattamente mozzafiato (o sì, dipende dai punti di vista). Ma vale la pena resistere e andare avanti, perché Gotthelf ai più tenaci, quelli che non si sono lasciati intimidire, riserva poi un mix cupo di gotico, fiabesco, folcloristico, terrore demoniaco che, se la novella fosse finita nella mani di Dreyer, lo avrebbe mandato in estasi.
Il ragno nero è un ragno vero, che cresce sotto la pelle, lì dove si era posato il bacio dato a suggello del patto stretto tra una donna e il diavolo. Da quella guancia nasce, cresce e inizia a seminare disgrazie, morte, orrore.
 
...era una moria quale mai s'era sentita descrivere, e il morire era la cosa più spaventosa che mai si fosse provata; e più terribile ancora della morte era l'indicibile paura del ragno, di quel ragno ch'era dappertutto e in nessun luogo, che improvvisamente ti fissava negli occhi versandovi la morte quando più t'illudevi d'essere al sicuro...”.*

È quanto racconta il vecchio nonno rievocando una storia passata che la madrina del bimbo in attesa di battesimo è curiosa di conoscere. È a questo punto che Gotthelf sorprende per la sua capacità di creare un'atmosfera di terrore e di angoscia, amplificata dal sorprendente tratteggio psicologico dei personaggi.
Ci vorrà un sacrificio per salvarsi.
Ovviamente "Il ragno nero” non è un thriller e nemmeno un fantasy. In ogni caso chi ha paura dei ragni farebbe bene a strane alla larga.
Ma c’è di più. Un adolescente Canetti rimase "soggiogato" da questo romanzo di Gotthelf per via di quella lingua potente ma anche oscura che è il dialetto dell'Emmenthal, sostanza e forma dei suoi scritti.
Tradurre Gotthelf è, in effetti, impresa quasi impossibile. È difficile leggerlo anche in originale per chi conosca il tedesco, tanto è inscindibile dalle espressioni dialettali di quell'area specifica della Svizzera.
Tra i suoi scritti, a parte "Il ragno nero", meritano menzione anche due racconti "Elsi, la strana serva" e "Mareili delle fragole". Tradotti come, se è così difficile tradurlo?
Sfruttando un altro dialetto, sempre svizzero, ma ticinese, precisamente di Bedretto, piccolo comune di un centinaio di abitanti nella regione Tre Valli.
È chiaro che in gioco qui non c'è solo la scelta tra traduzione letterale e non letterale, ma la necessità di presidiare la matrice stessa della narrazione di Gotthelf, quell'impronta che permea tutta la sua opera e che si sostanzia nelle sfumature linguistiche microscopiche, nei vocaboli insostituibili, unici, nelle tante espressioni dialettali e nei numerosi idiotismi di cui i suoi testi sono meravigliosamente disseminati, perdendo i quali si perderebbe tutta la "svizzeraggine" originaria di questo autore, col rischio di sperperare il prezioso patrimonio espressivo che incantò Canetti.
Quanto alle protagoniste, Elsi e Mareli, ecco, non aspettatevi figure assimilabili ai cliché ottocenteschi. Queste femmine vengono da profonde valli svizzere, piene di fragole e ombre che si allungano sui muschi umidi dell'Emmenthal.

Le bacche si moltiplicavano, ma lentamente. Mareili non avrebbe mai potuto spiccare una bacca non ancora matura, bisognava che il frutto le cadesse nella manina di sua spontanea volontà, bisognava che fosse grande, scuro, dolce e succoso…”**

E quindi sì, la letteratura svizzera esiste, eccome se esiste.
E, oltretutto, non è affidato al solo Gotthelf il compito di rappresentarla.
Questa Svizzera così verde, così erbosa, con le sue valli, il latte, i campanacci, le fragole.
Ma anche con le sue oscure e inestricabili ragnatele. 

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*”Il ragno nero”, Rizzoli, 1951. Traduzione di Liliana Scalero
**”Elsi, la strana serva”, Adelphi, 1999. Traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia




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